Parlare male del capo su Whatsapp: Cassazione fissa i paletti | In quali casi non si rischia il licenziamento

Parlare male del capo su Whatsapp non è considerata una causa di licenziamento valevole. Questo è ciò che la Corte di Cassazione ha sentenziato oggi a seguito di un licenziamento di un dipendente. Ecco in quali casi non si rischia il posto di lavoro

Parlare male del proprio capo o dell’azienda non è ritenuta dalla Corte di Cassazione una scusa plausibile per licenziare il dipendente. Ma questo, sia ben chiaro, è valevole solo se la conversazione chat avviene in alcuni contesti e circostanze.

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Parlare male del capo su Whatsapp, i paletti imposti dalla Cassazione sul licenziamento (Pixabay)

Tutto nasce nel 2017 a seguito di una controversia di licenziamento intimata dal capo al dipendente avvenuta “per giusta causa”. In quella occasione, le critiche mosse dal dipendente chiacchierone erano all’interno di una conversazione del tutto estranea all’ambiente di lavoro. E per tale motivazione, la Cassazione ha sancito che il licenziamento non poteva accadere.

Parlare male del capo su Whatsapp si può fare, ma solo in alcuni contesti | La sentenza della Cassazione

Criticare e parlare male del capo non può avere come conseguenza il licenziamento del lavoratore. Un comportamento di questo genere, secondo la Cassazione: “non ha rilievo disciplinare”.

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Parlare male del capo su Whatsapp non è causa di licenziamento (Pixabay)

Oggi la Corte di Cassazione ha depositato alla sezione lavoro proprio tale sentenza che blocca, così, i titolari d’azienda nel licenziare i propri dipendenti per futile motivo.

Tutto inizia dal licenziamento “per giusta causa” intimato 5 anni fa al dipendente di una società. In quel caso l’azienda aveva mosso tre contestazioni al lavoratore, tra cui quella di aver criticato e denigrato i responsabili d’azienda con una ex collega, in una conversazione via chat Whatsapp.

 Il tribunale di Udine, in primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento “per difetto di giusta causa”. La Corte d’appello di Trieste aveva, successivamente, ritenuto che la conversazione via chat “non avesse alcun rilievo disciplinare”. Ma in quel caso, era stata accolto parzialmente il ricorso dell’impresa,  dichiarando risolto il rapporto di lavoro con la condanna della società a pagare un’indennità risarcitoria al dipendente.

Entrambe le parti, azienda e lavoratore, dopo il verdetto dei giudici d’appello, hanno presentato ricorso in Cassazione. Ed è qui che la Corte ha rigettato il ricorso effettuato dal datore di lavoro dichiarando che le “critiche” mosse dal lavoratore erano state pronunciate all’interno di una conversazione extralavorativa e senza alcun contatto con altri colleghi di lavoro. Per questo motivo risultano essere “circoscritte ad un ambito totalmente estraneo all’ambiente lavorativo”.

La sentenza della Cassazione continua spiegando ancora che Non si può sostenere che la condotta adottata dal dipendente era potenzialmente lesiva, seppure il contenuto delle parole sono discutibili.

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Infine, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del dipendente in merito alle altre due contestazioni, e disposto un processo d’appello-bis che avverrà in presenza dei giudici triestini.

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