Pomodoro cinese prodotto in schiavitù, una inchiesta svela cosa c’è dietro

Migliaia di tonnellate di concentrato di pomodoro prodotto nello Xinjiang, regione del nord-ovest della Cina abitata dalla minoranza etnica degli uiguri, sarebbero sugli scaffali dei supermercati e nelle cucine di tutta Italia.  Lo svela una inchiesta dell’Investigative Reporting Project Italy. Di cosa si tratta.

Pomodoro cinese prodotto in schiavitù, inchiesta svela cosa c'è dietro
Pomodoro cinese prodotto in schiavitù, inchiesta svela cosa c’è dietro

Il grave problema sarebbe che molta di questa produzione di concentrato di pomodoro deriverebbe dalla semi-schiavitù in cui versa la popolazione di fede musulmana residente nella regione a nord ovest della Cina. Già al centro di numerose inchieste sulle politiche repressive condotte da Pechino nei suoi confronti. E’ quanto afferma una inchiesta di Irpi, l’Investigative Reporting Project Italy. Si tratta di una associazione di giornalisti attiva nello sviluppare e promuovere questo tipo di approfondimenti, in collaborazione con Cbc Canada.

Secondo quanto sostengono gli autori dell’inchiesta, Matteo Civilini, Eric Szeto e Caitlin Taylor, tra i nodi ci sarebbe la ripulitura del pomodoro contenuto nei fusti in arrivo dalla Cina. La pratica verrebbe effettuata una volta entrato nelle aziende conserviere nostrane. Il contenuto si mischierebbe con il pomodoro italiano fino a essere di fatto impossibile da rintracciare la sua provenienza. Nello studio si parla addirittura di 97mila tonnellate di prodotto arrivato in Italia nel 2020, circa l’11% dell’export di Pechino relativamente a questo bene

Pomodoro in Xinjiang, una storia di sfruttamento

Pomodoro in Xinjiang, una storia di sfruttamento
Pomodoro in Xinjiang, una storia di sfruttamento

Per l’antropologo tedesco Adrian Zenz, sentito da Irpi, il comportamento delle aziende implicate in questo business porterebbe le aziende stesse a essere “complici della campagna di repressione di Pechino nei confronti degli uiguri”. Alcuni paesi stanno già boicottando i prodotti in arrivo dalla regione, come gli Stati Uniti che hanno vietato l’importazione collegata allo Xinjiang.

Nella sua inchiesta, Irpi intervista alcuni uiguri riusciti a lasciare il loro territorio d’origine, che si soffermano molto sulle dure condizioni di lavoro nei campi di pomodoro. Negli scorsi anni queste voci si sono accumulate, dando forza a chi sostiene che in Xinjiang sia di fatto operativo un sistema al limite del concentrazionario, che funziona attraverso indottrinamento e lavoro forzato. A beneficiarne, a loro dire, aziende cinesi dell’industria delle conserve, come la Cofco Tunhe che ha il suo quartier generale proprio a Urumqi, principale località dello Xinjiang. Cofco utilizzerebbe manodopera di origini uigura, affermando pubblicamente di farlo per “promuovere l’unità nazionale”. Assecondando così le operazioni politiche del governo cinese nella regione.

Pomodoro prodotto da uiguri, le aziende coinvolte

Pomodoro prodotto da uiguri, le aziende coinvolte

Per l’Irpi, ci sarebbero alcune notissime aziende italiane coinvolte in queste operazioni di compravendita. Si parla ad esempio del gruppo Petti, che secondo Irpi avrebbe importato nel primo semestre 2021 circa il 57% del pomodoro cinese esportato in Italia. Dallo studio sarebbe evidente come il sarebbe partner proprio la stessa Cofco Tunhe. La stessa Petti ha poi confermato questa notizia a Irpi, affermando contestualmente che “la società è dotata di un codice etico ai principi del quale si sforza di adeguare costantemente i rapporti commerciali con i partner esteri”.

Aziende come Petti affermano che i container che arrivano in porti come quelli di Napoli e Salerno non vengono utilizzati per il mercato nostrano, bensì per quello africano. Una dichiarazione molto contestata da Zenz, che parla di “concetto molto pericoloso in merito ai diritti umani”. Negli stabilimenti di Nocera Inferiore dell’azienda, prosegue l’inchiesta di Irpi, si lavorano però prodotti finalizzati a ulteriori etichettature, con i nomi di altri venditori. Tra i clienti di queste operazioni ci sarebbero l’inglese Tesco e l’americana Whole Foods. Quest’ultima ha dichiarato a Cbc Canada di voler tagliare i rapporti con Petti dopo quanto emerso dall’inchiesta.

Uno strumento innovativo potrebbe cambiare le cose

Pomodoro
Uno strumento innovativo potrebbe cambiare le cose

Altre aziende importatrici del concentrato di pomodoro cinese sono la Giaguaro e la Attianese. Quest’ultima è stata al centro, come anche Petti, di inchieste condotte della Guardia di Finanza di Livorno che hanno portato al sequestro di centinaia di tonnellate di concentrato di pomodoro dalla dubbia provenienza. Difficile verificare infatti quale sia il contenuto del prodotto finito.

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I tempi però potrebbero cambiare a breve. I ricercatori della Stazione Sperimentale per l’Industria Conserve Alimentari di Parma hanno infatti messo a punto uno strumento che, a partire dall’analisi dei livelli dei minerali contenuti nei derivati di pomodoro, permetterebbe di rintracciarne la provenienza. Uno strumento che potrebbe fugare in futuro ogni dubbio. Finora non è stato utilizzato per cause difficili da comprendere, spiega l’inchiesta di Irpi. La speranza è che la musica possa presto cambiare.

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